lunedì 18 luglio 2011

OLGA, TATJANA E LJUDMILA - ОЛЬГА, ТАТЬЯНА И ЛЮДМИЛА

Autore: Carlo Spera
Tratto da: 
“Viaggio al termine della notte.
20 anni dopo l'esplosione della centrale di Cernobyl”
Casa editrice: ViediMezzo
Data: 2006

Автор: Карло Спера
Из: 
Путешествие на край ночи
20 лет после взрыва на ЧАЭС”
Издательство: ViediMezzo (Италия)
Дата:
 2006
 г.
К сожалению, русского оригинального текста интервью нет.


OL'GA, TAT'JANA E LJUDMILA

Trasferite. Residenti in uno dei due quartieri riservati ai “cernobyliani” nella città di Minsk

Io arrivo da Vetka, una cittadina che si trova a trenta chilometri da Gomel’. Dall’aeroporto sono solo quindici minuti d’auto. È una bella zona: ci sono ettari e ettari di bosco e un bellissimo fiume. Prima era considerata la più bella zona di villeggiatura nei dintorni di Gomel’. Era un posto attrezzato con tante strutture ed edifici per le vacanze.

Lavoravo lì come insegnante; vi ero stata mandata per motivi di lavoro nel 1977. A me e mio marito quel posto è subito piaciuto, così abbiamo deciso di rimanerci a vivere. È lì che sono nati tutti i nostri figli.

Abitavamo in un appartamento che ci aveva dato lo stato composto da una camera da letto e un soggiorno. Eravamo giovani a quel tempo, avevamo davanti a noi tutta la vita ed eravamo felici. Anche il lavoro ci piaceva.

Quando è accaduto il disastro eravamo a Vetka. Non ci hanno detto niente, non ci hanno dato nessun tipo di informazione, come tutti gli altri non sapevamo niente di niente. Mia figlia più piccola aveva tre anni, il più grande otto. Quando si è saputo quello che era successo siamo stati presi dal panico, non sapevamo cosa fare. L’incertezza è stata terribile.

Che giorno era?

Il ventinove aprile. Quel giorno sono incominciati ad arrivare i pullman con i bambini evacuati dalla zona di Bragin, e cioè a circa cento chilometri di distanza. Sono stati loro a dirci che era successo qualcosa, hanno accennato a un incendio, e che per questo li stavano trasferendo. Ricordo che non si trattava di pullman organizzati, erano i genitori dei bambini che, di propria iniziativa, avevano deciso di spostare i propri figli. Loro avevano capito cosa era successo, per questo decisero di portare i bambini dai parenti, dagli amici, dovunque purché lontano da lì.

Il tre maggio, invece, sono arrivate le persone che vivevano a pochi chilometri dalla centrale. Questa volta però i pullman erano stati organizzati dallo stato. Quella povera gente è stata sistemata negli edifici di villeggiatura che in quel periodo erano ancora vuoti. Quel giorno abbiamo capito che era successo qualcosa di molto grave. La gente è arrivata senza niente, avevano solo i documenti e il vestito che indossavano. Facevano pietà, erano stati strappati al loro ambiente senza poter portare via niente. Avevano detto loro che sarebbero potuti tornare presto a casa... ma loro lo sapevano che non era vero, che non sarebbero mai tornati. Sono stati da noi un paio di mesi, poi il governo li ha mandati nei sanatori.

Nel nord del paese?

Non si sa. Non li abbiamo più visti.

Non le è mai capitato, in questi anni, di incontrarne qualcuno?

No, mai. Comunque dopo un po’ anche noi abbiamo deciso di portar via da Vetka i nostri figli. Chi poteva farlo, naturalmente. Mio marito aveva la mamma che viveva vicino Minsk e così li abbiamo mandati da lei. Siamo stati fortunati.

Lei e suo marito invece siete rimasti a Vetka?

Lì lavoravamo e lì siamo rimasti.

A far che? I bambini non erano stati evacuati?

Alcuni erano rimasti. Solo chi poteva li ha mandati via, chi aveva la possibilità economica. Soltanto dopo un anno, quando si è chiarita la situazione, lo stato ha iniziato a organizzare i viaggi di risanamento per i bambini. Li mandavano in molte zone dell’Unione Sovietica. Perché quando gli hanno misurato il tasso di radioattività, gli esperti hanno scoperto che i bambini che vivevano da noi a Vetka erano impregnati di radiazioni. Nel 1990 la radioattività, lì da noi, era la stessa che nella zona di trenta chilometri intorno alla centrale. Colpa delle piogge.

E poi cosa è successo?

Alcuni sono andati via. Per primi quelli che avevano bambini; poi tutti gli altri. Ci hanno sparso per tutta la Bielorussia.

Vorrei capire se a un certo punto c’è stato un ordine: via di qui!

Tutti noi volevamo andare via. Ci è stato detto di andare via e che avevamo la possibilità di trasferirci in un altro posto. Tutti volevamo andare via. Ci hanno dato una carta: c’era scritto che eravamo degli evacuati. Era la carta di evacuazione.

La conserva ancora?

Sì, certo.

La signora si alza e va a prendere il documento. Lo conserva come una reliquia, in una busta di plastica ermeticamente chiusa.

C’è scritto che è stato rilasciato a Vetka, nella regione di Gomel’, e che abbiamo vissuto lì fino al ventisei novembre 1991. C’è scritto anche che Vetka si trova nella zona di controllo permanente della produzione di prodotti alimentari e che mio marito con tutta la sua famiglia è stato trasferito a Minsk. Qui c’è l’indirizzo della casa in cui ci troviamo in questo momento. Il tutto con delibera del presidente della repubblica bielorussa, ventotto maggio 1991, protocollo numero undici. Il documento dice anche che abbiamo diritto all’assistenza medica primaria e che abbiamo ricevuto come indennizzo settemilacinquecento rubli bielorussi.

Chiedo alla signora se posso fotografare i documenti. Dice di sì, però prima decide di coprire i nomi e i dati anagrafici visibili sul documento.

Prima di trasferirci ci hanno chiesto dove volevano andare, in che regione. Siccome mio marito aveva la mamma a Minsk abbiamo detto che volevano andare nella regione di Minsk. Siamo stati fortunati, molti sono stati mandati più a nord. Siamo stati fra i primi ad arrivare in questo quartiere. Qui, nel palazzo, proveniamo tutti dalla provincia di Vetka. Nel palazzo affianco, invece, provengono tutti da Čečersk.

Ci hanno trasferiti tutti insieme dalla stessa zona, e per noi è stato psicologicamente importante. È stato più facile adattarsi: ci conoscevamo; i parenti hanno continuato a vivere nello stesso posto. Ci sono due quartieri di trasferiti in città: uno è il nostro, l’altro si trova dall’altra parte di Minsk. Piano piano questi due quartieri sono diventati delle città dentro la città. Lo stato ha fatto costruire anche le scuole per i nostri figli e così noi insegnanti abbiamo trovato anche lavoro. È stato più facile adattarsi, anche perché gli abitanti di Minsk non ci vedevano molto bene. Dicevano che avevamo tolto loro gli appartamenti. Il problema delle abitazioni, degli alloggi, c’è sempre stato nel nostro paese. Funziona così: ci sono delle liste; tu ti iscrivi in una lista e quando arriva il tuo turno e c’è un appartamento a disposizione puoi occuparlo. Il nostro arrivo in città ha scombussolato le cose. Eravamo tanti, e tutti avevamo bisogno di un alloggio.

Un altro problema erano i posti di lavoro: proprio in quegli anni, nel 1991 e nel 1992, ci sono stati grandi cambiamenti in Unione Sovietica. Le fabbriche sono state chiuse, è stato un vero e proprio disastro, una crisi economica come non c’era mai stata. Il numero dei posti di lavoro è diminuito enormemente.

Però voi trasferiti avevate la priorità sia per quanto riguarda gli alloggi sia per i posti di lavoro.

È così. Noi eravamo privilegiati: avevamo il diritto a un appartamento, potevamo andare in villeggiatura gratuitamente e anche le medicine per i nostri bambini erano a carico dello stato.

Quindi è per queste ragioni che i cittadini di Minsk non vi vedevano di buon occhio.

Sì. Chiamavano i nostri bambini cernobyliani. I cittadini di Minsk non vogliono capire che queste case sono state costruite con i soldi raccolti appositamente per aiutare noi trasferiti.

Vi sentite in qualche modo ghettizzati?

Sì, eccome.

Ma fortunatamente lei ha continuato a lavorare.

Certo, anche la mia amica. Lavoravamo insieme nel 1986 e lavoriamo insieme anche adesso. Per molti altri trovare lavoro è stato più difficile. Mio marito per sei mesi non è riuscito a trovare niente. Ogni settimana tornava a Vetka per qualche giorno, non riusciva ad ambientarsi. Poi ha trovato lavoro in un’agenzia turistica e adesso lavora ancora lì. Le persone come noi, i trasferiti, dovevano lasciare le proprie case. È stata dura. Molti hanno dovuto abbandonare le case costruite dai genitori. Mia madre è rimasta là. Le hanno offerto un appartamento a sessanta chilometri da Minsk. Lo ha rifiutato. Adesso d’inverno vive con noi ma d’estate non riesce a stare qui a Minsk. È anziana, ha 75 anni, non ce la fa a restare in città per molto tempo. Sono molti quelli che sono venuti a vivere a Minsk e che poi hanno deciso di tornate indietro. Alcuni non avevano neanche più le case che avevano lasciato perché vi abitava altre gente, ma sono andati via lo stesso. Noi siamo stati obbligati invece, non potevamo rifiutarci.

In quel periodo sono sorti molti conflitti armati: in Kazachstan, in Georgia, in Armenia e in Azerbaižan. La gente scappava da quelle zone e molti di loro sono andati a vivere lì dove una volta vivevamo noi.

Molti tra voi erano dediti all’agricoltura. La terra era la “cosa” più importante. Come è stato l’impatto con la città?

A qualche contadino trasferito hanno dato un pezzo di terra qui intorno per coltivare l’orto. Quelli che non hanno avuto la terra, invece, hanno trasformato le aiuole e i giardini dei palazzi in piccoli orticelli. Proprio quei fazzoletti di terra intorno ai palazzi! Per i contadini è stato difficilissimo. Strappati improvvisamente da un ambiente a loro ben conosciuto non sapevano cosa fare. Molti hanno iniziato a bere. Oggi, sapendo che venivate a intervistarci, ho cercato di radunare i vicini, però la maggior parte delle donne è andata in campagna e gli uomini sono tutti ubriachi. L’alcolismo è una vera e propria malattia nella nostra società.

Lei crede che il problema dell’alcolismo sia nato a causa del trasferimento?

L’alcolismo! Gli alcolisti non sono solo quelli che si sono trasferiti o che non sono riusciti ad adattarsi; e non sono solo quelli che non hanno trovato lavoro. Vuole la verità? La causa è la situazione economica generale.

Comunque è innegabile che portar via le persone dalle proprie terre comporti in queste persone una sorta di perdita della personalità, del proprio ruolo sociale.

È vero, sì, ma è anche una scusa.

Quindi secondo lei si tratta di debolezza. Lei si sente cittadina di questa città?

Io personalmente non lo sono; i miei figli sì, loro non vorrebbero vivere da nessuna altra parte.

Se potesse tornerebbe a Vetka?

No. In quindici anni è cambiato tutto, non ci sono più i vicini, i parenti, i conoscenti.

Quando le hanno comunicato che la sua famiglia doveva evacuare qual è stata la sua reazione?

Me lo aspettavo, ero preparata, tutti lo eravamo; perché tutti avevano intenzione di andare via. La maggior parte di noi aveva dei bambini piccoli e desiderava soltanto portarli lontano da lì.

In quanti eravate?

Diecimila. Mia madre dice che metà degli abitanti è rimasta, soprattutto quelli che non avevano figli, gente di cinquanta o sessant’anni.

Torna spesso da quelle parti?

Due volte l’anno, non di più.

Interviene l’altra signora.

Io sono Ucraina, ma siccome prima c’era l’Unione Sovietica e i paesi non erano divisi, ho studiato qui a Minsk.

Com’è la vita in Ucraina?

Più difficile. Vivere qua è più facile. Anche nella provincia dove sono nata i villaggi sono stati evacuati. Tuttavia c’è gente, un paio di famiglie, che è rimasta a vivere là.

In Ucraina abbiamo incontrato una coppia che era stata evacuata ma poi è tornata illegalmente a vivere nella zona di esclusione. Li hanno portati via di nuovo ma sono tornati. Poi hanno trovato un accordo e ora vivono lì. Spesso le persone molto anziane dicono che hanno superato la guerra e che non hanno paura delle radiazioni.

Le radiazioni non si vedono, non si toccano. Sembra tutto normale. Ma non è così. La gente continua a morire anche lì.

I vostri figli sono informati su ciò che è accaduto a Cernobyl?

I nostri bambini sì.

Dopo un trauma come quello che hanno vissuto, lo spostamento ecc… hanno paura? Che cosa resta dentro?

I primi anni avevano paura. Ma oggi non hanno fobie, vivono tranquilli e si sono ambientati. Certo sanno anche loro che il Sarcofago non è proprio il massimo della sicurezza, però…

A questo volevo arrivare. Che cosa sapete riguardo il Sarcofago?

Sappiamo come è stato costruito: in fretta e da persone inesperte. Sappiamo che sono passati già diciannove anni e che la struttura non è in buone condizioni. Questo sappiamo.

C’è un po’ di rabbia nei confronti della sorte. Ci chiediamo il perché, perché mai siamo stati noi a prendere tutto il male. La colpa non è nostra. La cosa più brutta è stato vivere nell’incertezza.

Voi avete fondato un’associazione che unisce le persone trasferite. Precisamente di che vi occupate?

I primi anni abbiamo lavorato molto ma adesso la situazione è cambiata. Abbiamo iniziato organizzando viaggi di risanamento per i bambini, poi abbiamo formato una banda folcloristica.

Quindi la vostra associazione è nata con lo scopo di migliorare l’organizzazione del quartiere?

Sì, anche per quello. Cercavamo di organizzare incontri, feste, per parlare dei problemi legati al trasferimento, per raccontarsi le proprie esperienze; insomma, un punto d’incontro. Ma prima di tutto per organizzare le vacanze dei bambini all’estero.

Un’ultima domanda: secondo voi due giovani italiani fanno bene a disturbare due splendide signore bielorusse?

Le signore ridono.

Fate molto bene a parlare di queste cose, è importante non dimenticare.

Intervista di Carlo Spera

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