giovedì 24 febbraio 2011

IRINA, RESIDENTE NON AUTORIZZATA - ИРИНА, САМОСЁЛ

© Carlo Spera. Tutti i diritti riservati

Autore: Carlo Spera
Tratto da: 
“Viaggio al termine della notte.
20 anni dopo l'esplosione della centrale di Cernobyl”
Casa editrice: ViediMezzo
Data: 2006

Автор: Карло Спера
Из: 
Путешествие на край ночи.
20 лет после взрыва на ЧАЭС”
Издательство: ViediMezzo (Италия)
Дата: 2006 г.
К сожалению, русского оригинального текста рассказа нет.








IRINA
Residente non autorizzata

Irina e il marito, residenti non autorizzati della zona di esclusione a meno di cinque chilometri dall’impianto nucleare di Cernobyl, non ci aspettavano. Nessuno li aveva avvisati che due ragazzi italiani sarebbero andati da loro. Nel momento in cui ci presentammo alla donna avrei voluto scusarmi, accusare di superficialità la nostra guida, ma quando vidi il suo sorriso capii che dovevo star zitto.
Ci accolse con un abbraccio, poi ci invitò a entrare nella sua proprietà. Il marito, disse, non avrebbe avuto niente in contrario. Seguimmo la donna, che poteva avere un’ottantina d’anni, all’interno del cortile della sua casa e ci sedemmo all’ombra su una panca di legno in silenzio. Dopo un po’ arrivò il marito della donna, un uomo alto e robusto con la barba di un paio di giorni. Quando anche lui prese posto sulla panca vicino a noi fu chiaro che Irina poteva iniziare a raccontare.

«Sono ormai parecchi i morti. Prendevano l’acqua là, poi, sono morti… e quella cuoca, anche lei andava lì e anche lei è andata a morire. E dopo è venuto il turno degli altri… hanno vissuto per un po’, poi anche loro, poverini, sono morti… e anche i cani che bevevano l’acqua nelle pozzanghere sono morti. La gente moriva più o meno di continuo. Che altro dirti figlio mio? Sai, dicono che tutta quella roba sia andata verso la Bielorussia… e altrove… lo so perché da quando ho comprato l’antenna posso vedere in televisione molte più cose.
Vivo qui da tutta la vita… da tutta una vita. Non ho mai lasciato questo posto. È passato un po’ di tempo… tre giorni… non ci hanno detto la verità… e non dicendo come stavano le cose, quelli non ci hanno messo nella condizione di poter decidere se… e noi, da soli, non sapevamo la strada per andar via da tutto questo.
Prima c’erano più di quattrocento case qui intorno. Quelli che lavoravano a Cernobyl avevano comprato casa a Pripjat’ per loro e anche per i loro figli. Circa trenta famiglie si erano trasferite lì.
Sono venuti in tanti qui da noi, per la cronaca… tutti ci hanno detto qualcosa, mica hanno detto granché… hanno fatto tanto clamore ma intanto la gente ha continuato a stare qui e a morire. Quel tipo di interesse non ci è mai piaciuto, è che non l’abbiamo mai capito.
Mio figlio vive a venti chilometri da Kiev. Viene raramente, tutto il tempo sta al lavoro, e poi mia nipote ha avuto un cancro. Mi dice: “Sì nonnina, quando possiamo vogliamo venire da te”. Però anche la mamma, dopo l’operazione della figlia, è dovuta restare in casa per un bel po’ di tempo… ancora adesso non è facile… loro aspettano di andare in pensione… poi si vedrà. Sai, è stata un’operazione molto difficile, era una formazione tumorale molto brutta e per l’intervento, molto costoso, è stato necessario l’aiuto economico di un’altra nipote. Lo sai no, che queste cose si trovano soprattutto nelle persone giovani! Durante l’intervento questa formazione tumorale è scoppiata e ha provocato un’infezione pericolosa; hanno dovuto ripulire tutto, ma poi la ragazza ha avuto una serie di altre complicazioni. Adesso è molto vulnerabile a ogni tipo di infezione… per lei è rischioso anche un semplice raffreddore. Ha vent’anni, e ha sofferto già tanto nella vita. Anche il suo ragazzo. Era uno sbandato, beveva, forse si drogava… poi la mamma ha aiutato la figlia a separarsi da lui. Adesso mia nipote ha una casa e i genitori le hanno comprato anche una macchina… è andata così.
Sì, certo, fotografami pure, che la gente sappia, anche con il mio Nonno. Sai, siamo insieme da cinquant’anni. Sarebbe bello festeggiare le nostre nozze d’oro ma… oh, la vita passa. Caro mio, abbiamo tante belle mele, ciliegie, susine, e poi quanto sono buoni i nostri lamponi. L’anno passato i frutti erano così tanti che alla fine sono caduti… è che siamo rimasti solo in due, noi due soli.»

Quando Irina, residente non autorizzata, terminò il suo racconto, non potemmo fare altro che ringraziarla del tempo che ci aveva concesso.
Lei ci prese tra le braccia, augurandoci una buona vita e di fare un sacco di bambini. Il marito non disse niente; con il sorriso sulle labbra ci accompagnò fino al cancelletto dal quale eravamo entrati solo pochi minuti prima. Aspettò che lo oltrepassassimo, poi lo richiuse adagio e raggiunse la moglie.
Rimasi fermo a guardarli fino a quando, insieme, arrivarono alla fine del cortile e furono solo due puntini che andavano perdendosi tra i campi.
L’incontro era durato solo pochi minuti, eppure sentivo di aver vissuto un frammento importante della mia vita. Non tanto per il fatto di aver raccolto una testimonianza di grande interesse, ma perché la nostra presenza lì era stata per Irina la prova tangibile dell’esistenza di un altro mondo. E noi eravamo stati i rappresentanti inconsapevoli di quel mondo, un mondo a cui anche lei un tempo era appartenuta e che, da quasi vent’anni, l’aveva dimenticata.
A un tratto cominciai a sentire freddo nella calura pomeridiana e fui quasi felice quando Fëdor disse che dovevamo andar via. Salii in auto e indossai la maglia che avevo lasciato sul sedile posteriore pensando che non mi sarebbe mai servita. Metterla non mi diede alcun sollievo. Il gelo continuò a farsi sempre più intenso, un gelo che, me ne rendevo conto, non veniva dall’esterno, ma da dentro di me.

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