giovedì 21 aprile 2011

OKSANA ROMANOVA - ОКСАНА РОМАНОВА

Autore: Carlo Spera
Tratto da: 
“Viaggio al termine della notte.
20 anni dopo l'esplosione della centrale di Cernobyl”
Casa editrice: ViediMezzo
Data: 2006

Автор: Карло Спера
Из: 
Путешествие на край ночи
20 лет после взрыва на ЧАЭС”
Издательство: ViediMezzo (Италия)
Дата:
 2006
 г.
К сожалению, русского оригинального текста интервью нет.


OKSANA ROMANOVA

Dirigente dell’Ospedale Oncologico Pediatrico di Minsk

Questo Centro è stato ampliato negli anni ’90 da un dottore tedesco che, dopo aver visto in televisione una puntata della trasmissione bielorussa “Uno sguardo”, ha deciso di venire in Bielorussia per aiutare i bambini malati di tumore. In quella trasmissione si discutevano le problematiche relative alle malattie infantili: in sostanza si diceva che c’erano tantissimi problemi e che non esisteva una metodologia di cura efficace. Si pensava che il tumore non sarebbe mai stato sconfitto, che non sarebbe mai stato possibile trovare una cura.

In quel periodo alla nostra direttrice si è presentata l’occasione di andare in Germania per studiare lì come si poteva affrontare questa malattia. È stata la prima volta che i nostri dottori hanno avuto la possibilità di fare uno stage all’estero. È grazie soprattutto all’interessamento di una società svizzera che è stato possibile portare avanti questo progetto. In quel periodo hanno fatto venire qui a Minsk molti dottori e infermieri dalla Svizzera per aiutarci a capire la malattia. Lavoravano qui da noi circa sei mesi l’anno.

E così, nel ’93, il governo ha deciso di aprire un vero e proprio Centro oncologico dove curare, come accade in molti paesi esteri, tutti i bambini malati di tumore e con problemi ematologici. Poi nel ’97, grazie agli aiuti del governo tedesco, austriaco, svizzero e bielorusso, è stata portata a termine la costruzione di questo edificio. La struttura è stata costruita con finanziamenti del governo bielorusso, mentre tutte le attrezzature sono state comprate con i soldi dei governi stranieri. Da allora qui curiamo i bambini con le stesse tecnologie e gli stessi protocolli che vengono usati nel resto dell’Europa. Purtroppo, ancor oggi siamo l’unico Centro in tutta la repubblica dove vengono usate tecnologie moderne. Naturalmente le cure sono gratuite. Paga tutto lo stato. Anche i medicinali vengono acquistati dal ministero della sanità. Tuttavia ci sono medicine indispensabili che non riusciamo a procurarci. Fortunatamente abbiamo molti partner stranieri che ci aiutano. Vorrei approfittare per ringraziarli, a nome dell’ospedale e dei genitori dei bambini ricoverati. Un ringraziamento particolare agli amici italiani che danno la possibilità a molti bambini di andare in Italia per curarsi: il mare, l’alimentazione sana, il sole e l’affetto sono fattori molto importanti soprattutto per i bambini che hanno superato la malattia. Qui da noi sono circa il settantacinque percento.

Dato che ne ha parlato le faccio una domanda: i viaggi all’estero sono realmente e scientificamente significativi per i bambini? Anche una sola volta o necessitano di una ciclicità?

È difficile rispondere in modo preciso perché non ci sono statistiche. Tuttavia quando parlo con le associazioni mi dicono che il trenta percento dei bambini ha avuto questa possibilità. Sarebbe meglio che la percentuale fosse superiore.

Quali sono i problemi che si trova a dover affrontare per mandare avanti una struttura come questa?

C’è mancanza di alcune medicine. Esistono medicine che potrebbero aiutare i malati ma che non possono essere usate perché non registrate nella repubblica bielorussa. Lo stato non può comprare queste medicine.

In questo campo sono completamente ignorante. Vorrei che mi spiegasse cosa significa che queste medicine non sono autorizzare nello stato bielorusso ed è vietato comprarle.

C’è un iter burocratico per tutti i medicinali: devono essere registrati come prodotti riconosciuti, ci vuole una procedura di certificazione, ed è molto costosa. Ecco perché alcuni medicinali rari, ad esempio quelli che vengono utilizzati solo nel nostro campo, non vengono riconosciuti. Comunque se abbiamo bisogno di un prodotto non riconosciuto ci rivolgiamo alle associazioni. Loro, attraverso gli sponsor stranieri, spesso riescono a comprarli attraverso una procedura che consente di usare quel medicinale solo in casi specifici. Non è facile. Il problema è che le case farmaceutiche non sono presenti in Bielorussia.

A questo volevo arrivare.

Per le case farmaceutiche non è conveniente intraprendere una procedura di riconoscimento per una piccola quantità di medicinale. I nostri problemi nascono per questo motivo.

Qual è il numero dei bambini che siete in grado di ospitare? Dalla nascita del Centro il numero dei bambini malati è aumentato?

Abbiamo a disposizione centocinquanta lettini, però il numero dei bambini che vengono curati è molto più alto. E comunque, quando ce n’è bisogno, mettiamo anche altri letti. Da quando è stato fondato il Centro le statistiche rivelano che il numero dei bambini malati non è cresciuto nel tempo. Ogni anno le cifre oscillano intorno ai duecentocinquanta.

È vero che dopo l’incidente di Cernobyl molte persone giovani hanno deciso di studiare medicina? È un problema trovare medici e infermieri preparati?

Sì, è vero. Molta gente, dopo Cernobyl, ha avuto l’esigenza di studiare medicina. Credo per aiutare, per rendersi utile. Anche per questo non è affatto difficile trovare un medico che voglia lavorare in questo Centro. Il problema è che ogni dirigente vorrebbe avere collaboratori molto preparati. Nel nostro caso, serve che il dottore sia preparato, ma anche educato: deve avere anche un’anima. Io sono orgogliosa delle persone che lavorano con me. Perché sono sicura sia della loro preparazione sia del fatto che mostrano misericordia e affetto nei confronti dei bambini e dei loro genitori. E tutto questo nonostante gli stipendi siano molto bassi, da duecentocinquanta fino a un massimo di trecentocinquanta dollari al mese.

Con una cifra del genere è difficile andare avanti?

Sì, è difficile. Però i dottori, nonostante abbiano raggiunto una preparazione altissima, restano a lavorare qui. Inoltre se la giornata lavorativa finisce alle tre, è raro che qualcuno vada via a quell’ora. I miei collaboratori lavorano sempre qualche ora in più. Anche le infermiere. In particolar modo in questo periodo, perché i nostri dottori si recano spesso all’estero per trasmettere la loro esperienza ad altri medici.

Prima abbiamo nominato Cernobyl. Secondo lei, o secondo studi a cui lei può far riferimento, Cernobyl influisce sulle malattie che vi trovate a dover combattere?

Cernobyl è responsabile di tutti i tumori alla tiroide. Al cento percento. Noi pensiamo che Cernobyl abbia influito su tutte le malattie che ci troviamo a combattere, però non ci sono prove per confermare le nostre supposizioni; non è provato che il mutamento cromosomico sia una diretta conseguenza delle radiazioni.

Non è provato, ma possibile.

Non ci sono prove che permettano di dichiararlo. Però tra i miei parenti tre persone sono morte di tumore nell’arco di un anno.

Perché una persona si ammala di cancro?

Per mancanza di immunità. E forse proprio la mancanza di immunità deriva da Cernobyl. Però gli studiosi non hanno mai dichiarato una cosa del genere.

Anche perché sui reperti fossili di età preistorica sono state individuate tracce di malattie degenerative identiche a quelle di oggi. Immagino le difficoltà e le perplessità nel fare dichiarazioni.

Sì.

Lei è molto giovane e venti anni fa doveva essere una ragazzina. Non posso esimermi tuttavia dal chiederle di ricordare il giorno dell’incidente.

Ricordo soltanto che non ci hanno detto niente. Mio figlio aveva meno di un anno e quel giorno l’ho portato a fare una passeggiata. Sotto il sole. Sfortunatamente siamo stati anche sotto le piogge, quelle famose. Nessuno ci ha avvisato, non abbiamo saputo niente. Da allora spesso mi sento male e ho molti problemi di salute; forse a causa del mio lavoro, dell’intensità del mio lavoro, ma forse anche per quello. Non so dove andremo a finire. Forse il diritto di saperlo è solo di Dio. Comunque sia non avevano il diritto di trattarci in quel modo. Non avevano il diritto di negare l’accaduto.

Il suo ricordo è un non ricordo.

È così.

Perché, secondo lei, il governo si è comportato in quel modo?

Era l’epoca dell’ex Urss. Tutto era meraviglioso. Nessuno diceva niente di niente; credevamo di vivere nel più bel paese del mondo. Forse è una caratteristica degli slavi essere molto tolleranti, aspettare sempre che finirà bene, essere fatalisti. Spesso viaggio all’estero e vedo come valutano il mio popolo: come la risorsa più grossa del nostro paese.

E voi invece, come vi comportate con i bambini? Dite loro la verità riguardo la malattia?

Tutti i bambini sanno della loro malattia e si rendono perfettamente conto in che tipo di struttura sono ricoverati. Esistono libri speciali per spiegare queste cose ai bambini. Ce li hanno regalati i nostri partner svizzeri. Li abbiamo fatti tradurre in una lingua molto semplice e adatta ai bambini. Qualche volta, però, sono i genitori che chiedono di non spiegare ai bimbi che sono malati. È loro la scelta se dirglielo oppure no. Ma i bambini sono così intelligenti che capiscono tutto e subito. Il loro sguardo rivela che sono molto maturi; la sofferenza li fa crescere rapidamente.

In questo ospedale vengono ricoverati anche bambini che non hanno famiglia?

Sì, e anche tanti. Noi cerchiamo di dargli un futuro.

Quanti medici lavorano in questo Centro?

Per legge possiamo assumerne centotrenta. Tuttavia in questo momento sono centocinque. Duecentoventi è invece il numero degli infermieri.

Come sono organizzati i turni?

È molto difficile rispondere precisamente. L’orario lavorativo è di trentacinque ore a settimana, ma i dottori lavorano molto di più. La giornata lavorativa va dalle otto fino alle sedici cinque giorni a settimana, ma è raro che uno di noi vada via in orario.

Mio padre è pediatra e ho imparato a riconoscerlo quando avevo diciotto anni. Praticamente viveva in ospedale.

La stessa cosa qui. La mia giornata lavorativa inizia alle sette e non esco quasi mai prima delle diciassette. Naturalmente sono sempre reperibile al telefono. Il nostro lavoro è uguale in tutto il mondo. Anzi, adesso sto un po’ meglio, quando ero in corsia lavoravo dalle otto fino alle venti.

La ringrazio, e non solo per l’intervista.

Anche mio figlio non mi conosce bene, siamo riusciti a costruire un rapporto soltanto quando lui aveva quindici anni.

Vorrei rassicurarla, noi figli impariamo dopo ad apprezzare.

Intervista di Carlo Spera

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